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La rivoluzione contro il velo

di Aldo Sofia

Del progettato ‘mondo altro’, o alternativo all’Occidente, che Cina e Russia proclamano di voler edificare sulle macerie della tragedia ucraina, dovrebbe far parte anche l’Iran teocratico: non a caso, visto che Xi Jinping fa incetta di petrolio persiano, mentre Putin è legato al regime degli ayatollah nella difesa militare della dittatura sanguinaria di Bashar al-Assad in Siria. Il tasso di democraticità non è del resto una preoccupazione del nuovo (per ora incerto) asse internazionale in gestazione, visto che le due ‘capitali guida’, Pechino e Mosca, non sono certo modelli basati sullo Stato di diritto.

Va tuttavia ricordato che gli Stati Uniti (con l’Europa più o meno al traino) non sono estranei all’ennesima tragedia che sta vivendo l’Iran, visto che sono state le pesantissime sanzioni economiche volute da Trump – varate insieme all’ingiustificata disdetta dell’accordo sul nucleare – a indebolire fortemente la parte più moderata degli ayatollah, favorendo l’arrivo alla presidenza dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi. Insomma: sia ad Est sia ad Ovest, pur con propositi diversi, c’è stata una obiettiva coincidenza nel favorire il peggior governo dell’arcaico e violento clero, che ha contribuito a trascinare una nazione con notevoli potenzialità in un vortice di crisi economica, povertà, corruzione, e leggi sempre più liberticide.

È la coraggiosissima ‘ribellione del velo’, partita dalla regione curda dopo l’uccisione in carcere, per mano della truce ‘polizia morale’, della 22enne Mahsa Amini, arrestata perché ‘colpevole’ di indossare in ‘modo non conforme’ lo hijab, obbligatorio per legge e che non deve coprire solo la testa, ma anche collo e gote. Tragica scintilla che ha infiammato diverse regioni, principali protagoniste le donne: taglio in pubblico dei capelli, veli dati alle fiamme, soprattutto lo slogan ‘donna-vita-libertà’.

Da parte del regime islamico l’immancabile risposta: soltanto pallottole, e in tre settimane almeno una settantina di morti, migliaia di fermati e ieri anche l’arresto della figlia dell’ex presidente Rafsanjani, musulmana in chador ma attivista per i diritti umani, aveva definito l’uccisione di Amini ‘terrorismo di Stato’. Le dimensioni assunte dalla protesta, l’aperta solidarietà degli uomini e il fatto che essa sia animata da ragazze diventate anche le principali vittime della repressione, la rende diversa da quelle che l’hanno preceduta soprattutto nell’ultimo ventennio. Non mobilita soltanto giovani e studenti della piccola borghesia, ma riguarda tutte le classi sociali.

“Bruciare il velo – spiega il regista Fariborz Kamkari, costretto all’esilio – equivale a bruciare la bandiera stessa del regime, che usa lo hijab come rappresentazione della sua ideologia… E umilia il corpo delle donne per marginalizzarle togliendo loro ogni effettivo ruolo politico culturale e sociale, e comunque in questa sollevazione c’è la sofferenza di tutto un popolo”. Certe esitazioni del regime, le (inedite) scuse del capo dello Stato alla famiglia di Mahsa Amini, alcune voci dall’interno dell’apparato dirigente contro metodi e violenza della ‘polizia morale’ segnalano le preoccupazioni dei vertici. Che tuttavia conservano sicuramente la determinazione e l’apparato repressivo necessari per soffocare la ribellione, servendosi oltretutto dello spauracchio della presunta volontà secessionista e indipendentista della minoranza curda. Difficile immaginare che con la rivoluzione del velo possa bruciare anche il regime. Soprattutto se continuerà a godere della complicità di quel ‘mondo alternativo’ a traino russo-cinese.

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2022-09-29T07:00:00.0000000Z

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