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Una vita in Pretura per ‘rendere giustizia’

Con Franca Galfetti Soldini, che dopo vent’anni (trentaquattro in totale) lascerà a fine anno la guida della Sezione 3 della Pretura in via Bossi a Lugano

di Cristina Ferrari

Intervista a Franca Galfetti Soldini che lascerà a fine anno la guida della sezione 3: ‘Le liti restino nella sfera privata, non si usino i social per fare pressione’.

Lavorerà fino all’ultimo giorno, poi per Franca Galfetti Soldini, 63 anni, con il 2 gennaio si aprirà una nuova fase della propria vita: «Prima di tutto mi farò una bella dormita, poi comincerò a organizzare il mio tempo libero». Dopo 34 anni in Pretura e 20 da pretore, lascerà la Sezione 3 di via Bossi a Lugano. Non prima di evadere quanto rimasto sulla scrivania «in modo che chi arriva (il concorso per il sostituto o la sostituta è già stato chiuso e sono in corso le audizioni, ad esprimersi sarà successivamente il Gran Consiglio, Ndr) non si ritrovi uno zaino pieno di pietre...». Un territorio di pertinenza che porta a tutti i comuni attorno al Ceresio e una varietà di pratiche, quale giudice civile di prima istanza, ampia.

Anche suo marito, Simone Soldini, direttore uscente del Museo d’arte di Mendrisio, è andato in pensione: coincidenza o volontà reciproca di riappropriarvi dei vostri spazi e hobby?

Le due cose, anche se non mi ha consultata, mentre io ho deciso da tempo che nel momento in cui mia figlia minore avrebbe terminato gli studi mi sarei presa del tempo per me.

Anche perché il tempo investito è stato parecchio in termini di ore, preparazione, pensieri. Potremmo parlare di una vita in Pretura. Ha dunque compreso di aver dato molto, diremmo abbastanza?

Sì, soprattutto di pensieri. Perché è un lavoro che te lo porti anche a casa. Adesso occupandomi di un altro tipo di pratiche rispetto a quando mi dedicavo ai divorzi è meno sfiancante, soprattutto da un punto di vista emotivo. Ora si parla soprattutto di soldi, che possono essere importanti, intendiamoci bene, ma meno incisivi sulle persone rispetto a quando entrano in gioco i sentimenti, gli esseri umani.

Come ha preso avvio la sua carriera? Perché non ha scelto la strada dello studio privato?

A volte le cose nascono casualmente. Ero una giovane avvocata, stavo preparando gli esami di notaia e desideravo essere indipendente dalla famiglia. Mi è stata offerta una possibilità per qualche mese quale giurista alla Pretura Sezione 1 per evadere gli arretrati. Ancora prima che terminassi mi hanno proposto una sostituzione di un anno in un’altra sezione, ho subito accettato. È così che via via mi sono appassionata.

Qual è stato l’elemento che l’ha portata a dire ‘questa è la mia strada’?

Forse l’impressione di riuscire a rendere giustizia, o almeno provarci... Trovo che se hai una certa etica, stando dalla parte del giudice hai la possibilità di poter fare la differenza.

È sempre facile oggi, quando tanti processi si fanno prima via social, con il pericolo di minare il senso di giustizia a cui lei accennava?

Premesso che si può rendere giustizia a condizione che qualcuno che ha ragione porti anche le prove a sostegno della sua tesi, capita che manchi questo tassello e quindi, anche se nell’intimo siamo convinti che abbia ragione, dobbiamo decidere a sfavore della parte. Abbiamo dei “paletti” entro i quali dobbiamo muoverci. Ed è proprio lì che diventa importante il ruolo dell’avvocato, sul quale però preferisco non aprire un capitolo... Lo faccio per i social. Le liti di cui trattiamo dovrebbero rimanere nella sfera privata, a prescindere dalle parti coinvolte. Biasimo quegli avvocati o parti che tentano di usare i “social” in senso lato quali mezzi di pressione sul giudice, per dare la loro versione dei fatti in una fase processuale precedente alla sentenza. Le liti private, che sono quelle che trattiamo, dovrebbero rimanere tali e anche i pretori non dovrebbero rilasciare dichiarazioni ai media.

Ha provato mai amarezza nel chiudere una pratica? Nel comprendere che la giustizia non è arrivata del tutto?

Non voglio dire tante volte, però sì, certo, e a livello umano mi dispiace. D’altro canto se con gli elementi di prova che si avevano non si poteva concludere diversamente, perché l’avvocato o il suo cliente hanno effettuato determinate scelte processuali, sono loro che poi devono assumersene la responsabilità. Cerco sempre di avvertire le parti sui rischi di causa e alcuni avvocati non apprezzano questa mia modalità. Vorrei che con il mio ausilio le parti potessero trovare una soluzione alla loro controversia perché credo che un accordo sia il miglior modo di chiudere una lite. Sono convinta che una soluzione condivisa anziché imposta – perlomeno a una delle due parti – quale è la sentenza, venga assunta con più presa di coscienza. Chi ha promosso la causa non necessariamente ottiene quello che avrebbe voluto ma ha comunque ottenuto qualcosa di accettabile entro tempi ragionevoli. Perché, spesso ce lo dimentichiamo, una sentenza comporta tempi sempre più lunghi rispetto a una soluzione concordata. Non manco quindi mai di spiegare, a chi è davanti a me, che anche qualora dovesse ottenere fra alcuni anni quello che voleva, oltre ad essersi probabilmente “mangiato il fegato”, che ha un costo anche questo, quello che si riuscirà a ottenere non sarà mai il 100% di quello che si voleva. Anche se la cifra richiesta la metterò in sentenza, quella cifra è costata in termini di soldi perché si dovrà pagare l’avvocato (dato che la partecipazione riconosciuta dai tribunali alle spese del proprio avvocato di regola non copre il costo effettivo), anticipare tasse, e via dicendo, tutte cose che molte volte le parti non considerano. Purtroppo, nonostante l’introduzione del tentativo di conciliazione obbligatorio in via preliminare, è presente ancora questomodo litigioso che è un po’ fomentato dagli stessi avvocati. Quelli con i quali puoi trovare delle soluzioni non sono così tanti...

Cosa ha amato del suo lavoro e cosa meno?

Meno la parte amministrativa, burocratica. Invece l’andare in aula, il cercare di trovare soluzioni, ma anche lo studiare l’incarto, mi hanno sempre coinvolto. Il problema è che abbiamo un ritmo di lavoro tale per cui non si ha così tanto tempo per studiare a fondo ogni pratica. Detta così può sembrare ‘brutale’, ma con la modifica del Codice di procedura civile, dieci anni fa, ho sempre più dovuto far capo ai miei giuristi per la redazione delle sentenze. Una revisione che ha comportato anche una presenza maggiore in aula in quanto ai segretari assessori non è più permesso sostituirci, se non per le conciliazioni che sono di loro competenza.

Ha affrontato decine di migliaia di pratiche. Un elemento che l’ha portata a mostrare elasticità di mente e di organizzazione?

Certamente, ci occupiamo di pratiche che vanno dalla contrattualistica alle cause di risarcimento danni, dal diritto di vicinato al contratto di lavoro, dagli appalti alle azioni di annullamento di delibere assembleari e via di seguito. Devo dire che è un aspetto da un lato affascinante, perché molto vario, ma anche stancante in quanto faccio venti cose diverse al giorno e, come comprenderà, non è sempre così semplice.

Anche nel 2022 mi tocca chiederle come è riuscita a conciliare il ruolo privato e professionale, in quanto donna. Resta complesso?

Forse oggigiorno è più semplice, ma quando ho iniziato non era facile conciliare tutto. Occorreva una grande organizzazione e in questo sono convinta che noi donne siamo più forti. Quando decidi di fare questo lavoro ed impegnarti a farlo bene, ma vuoi essere anche moglie e madre, devi inevitabilmente rinunciare a tante cose, in primis al tempo libero. Per me non entrava neppure in considerazione partecipare a un convegno e stare via una notte perché poi tutto diventava difficile: necessità dei figli, animali domestici, faccende di casa, amministrazione familiare e il resto. Eppure, lo porto come un aneddoto, mio marito mi diceva sempre ‘prenditela con calma’, faceva lo zen lui, come se per noi donne l’attività professionale fosse da considerare alla stregua di un hobby. Ho avuto in alcuni momenti l’impressione che non capisse l’importanza del lavoro che stavo svolgendo, forse perché non mi sono mai lamentata troppo del doppio peso, anche se a volte, ripensando soprattutto agli anni in cui i figli erano piccoli, mi chiedo come sia riuscita a fare tutto. È anche il motivo per cui desidero del tempo per me, per coltivare i miei interessi, dalla Grecia, che considero la mia seconda patria (parla e scrive in greco, ndr) alla fotografia. E non ho timore di questo, anzi l’aspetto. Tornando al mio lavoro è capitato di portare delle pratiche a casa, ma sono sempre riuscita a farlo a compartimenti stagni. Un po’ perché ho un senso del segreto d’ufficio molto radicato e quindi non mi è mai capitato di parlare del mio lavoro con mio marito, se non magari una battuta o un chiarimento alle figlie, come nel corso di un approfondimento di una causa a un parrucchiere per la posa di extension, niente di più. Come è capitato che parenti o amici mi chiedessero un consiglio su alcune questioni, ma penso che sia normale, come in altre professioni.

Come sono cambiati gli utenti nel rispetto dell’autorità?

Non ho notato un grande cambiamento, l’ho avvertito invece nella tipologia di avvocato. Se il ‘vecchio’ avvocato aveva, salvo qualche eccezione, quasi un sacro rispetto e nelle forme era corretto, adeguato, oggigiorno con le nuove generazioni non è sempre scontato: ogni tanto c’è bisogno di rimetterli al loro posto. Non ho invece vissuto una differenza fra utenti o avvocati uomini o donne. Forse nelle cause di divorzio era più semplice che una donna capisse un problema, soprattutto se era un’avvocata che aveva famiglia. Certo il ruolo in aula nell’essere donna, a tutti i livelli, è mutato non poco: credo di essere stata la prima a presentarmi in un’udienza col pancione. Ricordo di essere partita, per il secondo figlio, dall’aula udienze verso l’ospedale e di vecchi avvocati che mi chiedevano se potevano toccare il pancione perché vi era la credenza portasse fortuna. In generale, credo che il ruolo femmina-maschio sia sempre stato un problema più degli uomini piuttosto che di noi donne.

C’è una pratica che le è rimasta in testa o nel cuore?

A scadenze regolari me ne viene in mente una. Ma c’è una cosa sulla quale riflettevo. Quando ho trattato di divorzi ho visto tantissime famiglie e ho assistito a separazioni molto brutte, con situazioni familiari pesanti e bambini che bisognava cercare di proteggere. Allora mi sono sempre chiesta se la situazione che arrivavo anche a imporre fosse quella più giusta. In fondo non lo si può mai sapere in quanto ci sono così tante variabili. Quando però mi è capitato a distanza di anni di ritrovare quelli che allora erano i figli di quelle famiglie problematiche e vedere che nella vita se l’erano cavata bene, ho provato un grande sollievo. Così mi sono chiesta se è la natura umana, a prescindere da quella che è stata l’esperienza personale, che ci ha dotato di risorse per cui se devi emergere, emergi, oppure se è grazie a una rete che si è costruita attorno a queste persone... Non lo so, ma posso dire che, forse, nel nostro lavoro su alcune cose riusciamo ancora a fare la differenza.

A chi le succederà lascia un messaggio, una nota, un augurio, un monito?

Quello di trovare lo stesso piacere, passione, che ho trovato io. È un lavoro in cui non ci si annoia, che dà soddisfazioni. A me è piaciuto il contatto con le persone; hai l’impressione che tu, sulla base delle tue conoscenze e formazione, possa aiutarli a trovare una soluzione alla loro controversia senza dover passare attraverso una sentenza. Ma senza entusiasmo diventa pesante. Poi, suggerirei di trovare interessi anche al di fuori dalla sfera professionale: sei una persona completa se la tua vita non è solo il lavoro, solo così acquisisci quelle ricchezze capaci di far crescere anche la tua professione. Non puoi essere un ‘Fachidiot’, uno cioè che è un bravissimo teorico, magari un grande giurista, ma che non sa neppure di cosa parla perché non conosce il problema che è a monte. Soprattutto nella nostra professione, di prima istanza, è necessario avere un’esperienza di vita reale che ti permetta di capire il problema che ti viene sottoposto, non basta la sola conoscenza del diritto o dell’ultima sentenza del Tribunale federale. E penso anche che se sei una persona a tutto tondo sei anche una persona libera, difficile da influenzare o sulla quale esercitare delle pressioni. C’è una regola? Quando entro in aula ho sempre letto l’incarto.

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