laRegione

“Extraterrestre portami via”

L’alieno buono compie 40 anni

Diciamo la verità. Non tutti i bambini se lo sarebbero abbracciato. Seduta a metà sala in un cinema cittadino, nel dicembre del 1982 Laura aveva nove anni; si era trattenuta per tutto il film e poi, sul finale, aveva mollato gli ormeggi: “Mia mamma mi disse di non piangere, che un giorno sarebbe tornato da Elliott, oppure che Elliott sarebbe volato da lui con un’astronave. Io non dissi niente, continuai a guardare in basso, come tutte le altre volte in cui veniva inquadrato.

Per Natale mi regalarono il pupazzetto, con il collo che si allungava: scoppiai in lacrime davanti all’albero di Natale. Io da E.T. ero terrorizzata…”.

Eventi e nessi causali

Iniziare la commemorazione di E.T. l’extra-terrestre con l’incipit “Chi in fondo non ha amato l’extraterrestre rimasto intrappolato sulla terra?” significherebbe generalizzare. Rispettosi di tutte le diversità, e al netto di qualche esperienza traumatizzante, non è un azzardo dire che all’alieno del film di Steven Spielberg – uscito in lingua italiana nel dicembre di quarant’anni fa – sono legati i ricordi di noi umani che non abbiamo mai preso un’astronave (o almeno non che non abbiamo i milioni per farlo), noi terrestri che quando ci tagliamo con il coltellino svizzero possiamo pure puntare il dito sulla ferita per mezza giornata e non succede nulla (vale anche per i gerani appassiti). Per quelli col cuore di pietra che non avessero mai visto E.T., questo è ciò che vi siete persi...

‘Sinossi’

Giunto da non si sa dove per incasinare la vita di un bambino che già aveva abbastanza problemi di suo (i genitori divorziati, una piaga nel 1982, oggi un po’ meno), E.T. – occhi cerulei su faccino da anziano simpatico, busto da donna flaccida e trascurata – viene trovato dal piccolo Elliott in un campo di grano come Piero nella celebre canzone pacifista; in un lampo lampante, tra il terrestre e l’alieno nasce un’amicizia interplanetaria. Elliott e i suoi fratelli – Mike e Gertie – nascondono E.T. in casa, assecondando giorno dopo giorno il suo tentativo di rimettersi in contatto con il Comune di residenza extraterrestre; interfacciato con l’alieno, grazie a “una forza dentro che neanche io so come” (cit. Famoso Iole), Elliott diventa prima alcolista, poi animalista, e riesce persino a baciare la più bella della scuola; in seguito, come in tutti i film in cui ci sono dei bambini, arrivano gli stupidi adulti, qui sotto forma di Governo che E.T. lo vuole studiare. Elliott allora si carica l’amico verde nel cestino della sua bicicletta volante e vola via, dando così vita al logo della Amblin Productions (poi Entertainment). Il film si chiude là dov’era iniziato, nel bosco, da dove passerà l’ultima astronave di mezzanotte (lacrime, tante lacrime, benedette lacrime).

“Come spieghi cos’è la scuola a un’intelligenza superiore?” (ELLIOTT)

“Beh, se tagliate le orecchie a un gatto aleano e spostate un po’ più su il naso vedrete molto di quella che è l’immagine di E.T.” (CARLO RAMBALDI)

Il Vangelo secondo Spielberg

C’è poco da fare gli spiritosi. E.T. l’extra-terrestre è la storia di tutte le storie, è l’incontro ravvicinatissimo del terzo tipo, nato dal personaggio immaginario creatosi dallo Steven Spielberg figlio di divorziati e finito nello script di Melissa Mathison (1950-2015), per diventare la storia di fantascienza più reale ed empatica con gli altri mondi possibili. Presentato in anteprima a Cannes nel maggio del 1982, il mese dopo era nelle sale americane, a sbalzare dalla vetta dei film campioni d’incasso

Star Wars, restandovi – in vetta – ben undici anni. Nove nomination all’Oscar, ne vinse quattro. Uno alla musica di John Williams, fido accompagnatore delle visioni spielberghiane. Per qualcuno E.T., sceso in terra ad asciugarci le lacrime, è il Vangelo secondo Spielberg: “Una crocefissione da parte della scienza militare”, lo definisce il critico Andrew Nigels, e una “resurrezione per mano dell’amore e della fede”. Secondo il biografo del regista, Joseph McBride, per il poster del film la Universal Pictures si sarebbe rifatta alla Creazione di Adamo di Michelangelo. Tutta quest’aura fantascientifico-religiosa è smentita, almeno in parte, dallo stesso Spielberg. Dall’Enciclopedia digitale: “Se fossi andato da mia madre e le avessi detto ‘mamma, ho fatto un film ed è una parabola cristiana’, cosa credete che mi avrebbe risposto una che ha un ristorante Kosher a Los Angeles?”.

Paura eh?

Altre esperienze personali. Racconta Daniela, che all’epoca aveva undici anni: “Era bruttino, ma simpatico con quel fondoschiena da paperino”. Daniela di cognome fa Rambaldi e quando papà Carlo le sottopose la sua creazione – racconta nella bella intervista rilasciata a Francesco Gallo dell’Ansa – le chiese se facesse paura. “Poi arrivò anche il placet di Steven Spielberg”. Rambaldi figlia, nella fondazione dedicata al padre diretta dal fratello Victor, racconta che i mostri creati dall’illustre genitore tenevano lontani i suoi amichetti, spaventati da King Kong e Alien, in bella mostra nel suo studio, ma anche dal rischio di ritrovarsi una testa mozzata sul tavolo di casa. Un’altra delle difficoltà di Daniela stava nel dover rispondere alla domanda “che lavoro fa tuo padre?”, trovando un’alternativa più moderata a “fa i mostri”.

“Spielberg mi ha detto che voleva una cosa brutta ma innocente. Beh, per farlo brutto bastava mettere molte grinze sul volto. Farlo innocente era più difficile, perché poteva sembrare stupido. Poi un giorno ho guardato il mio gattino aleano, e nei suoi occhi ho visto proprio quell’innocenza che cercavo” (Carlo Rambaldi)

Nato in Emilia Romagna nel 1925, morto in Calabria nel 2012, Rambaldi ha vinto tre Oscar. Il primo per King Kong, film di John Guillermin del 1976 in cui la figura intera della bestia, alta dodici metri, è raramente inquadrata; gli si preferisce l’effettista Rick Baker (sette volte Oscar, colui che truccò Michael Jackson in Thriller) vestito da gorilla, e un braccio meccanico col quale quel romanticone di King afferra Jessica Lange e la porta a sé, innamorato perso di lei (chiamalo scemo). Rambaldi ritirerà una seconda statuetta per la creatura di Alien (1979), e la terza per l’extraterrestre di cui scriviamo.

L’alieno di legno

Geometra diplomato all’Accademia delle Belle arti di Bologna, Carlo Rambaldi debuttò nel cinema costruendo il drago Fafner nel film Sigfrido, tratto dall’opera di Richard Wagner. Lavorò per Mario Monicelli, Marco Ferreri, Pier Paolo Pasolini e Dario Argento. È suo, a questo proposito, l’inquietante bambolotto di Profondo rosso (1975), e così sarebbe stato il Pinocchio di legno, oggetto però di causa tra l’ideatore e la produzione. Stando alle parole di Rambaldi – se ne fa tramite il Dagospia non gossipparo, citando l’introduzione al Pinocchio di Giuliano Cenci – il burattino era uno dei suoi sogni; con l’interesse della Rai a farne una serie televisiva, Rambaldi ne produsse un prototipo a sue spese (oggetto che destò l’attenzione di Renato Guttuso, che voleva comprarselo); sfruttando un ritardo di consegna dei materiali per il loro funzionamento, i tre Pinocchi pronti per lo sceneggiato di Comencini (“Uno da mezzo primo piano che parlava e rideva, uno che correva e un altro addirittura che prendeva il martello e lo lanciava”, scrive il creatore) vennero fotografati in lungo e in largo dal cognato del regista, ingegnere meccanico che si fece dei Pinocchi tutti suoi, utilizzati per le riprese in luogo degli originali; da qui la causa per plagio, il blocco dello sceneggiato poco prima della messa in onda, il risarcimento milionario. La soddisfazione più grande per Rambaldi fu che il burattino plagiato – un mezzo sgorbio se messo a confronto con quello rambaldiano – funzionava a stento. Nella storia dell0 sceneggiato, il piccolo Andrea Balestri, il Pinocchio in carne e ossa, arriva solo a questo punto, per porre rimedio ai difetti di funzionamento di quello di legno.

“Chi fa il bello, può fare anche il brutto: non c’è alcuna differenza. Anzi, a volte creare il brutto è più complicato, perché la cosa si presta a tante possibilità. C’è il brutto spaventoso, quello simpatico, l’antipatico e via dicendo. Nel caso di E.T. serviva un personaggio diverso dal terrestre. L’ho potuto fare bruttino, allargandogli gli occhi, portandogli su il naso a patatina, ingrandendogli la bocca.

In questo modo ci siamo allontanati dall’umano e dal bello” (Carlo Rambaldi)

Tornando a E.T. La storia dice che nessuno dei migliori effettisti di Hollywood seppe creare quell’essere tra il tenero e lo spaventoso; Spielberg congedò gli americani e volle con sé quell’eccellenza italiana già coinvolta per dare forma e vita, anni prima, agli alieni di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Creato in tre mesi al costo di 1,5 milioni di dollari, il pupazzo di E.T. consta, complessivamente, di quattro teste di cui una meccanizzata e una figura intera dentro la quale si celavano Tamara De Treaux e Pat Bilon, nani del mondo del cinema, più un 12enne senza gambe, Matthew De Meritt, nella scena in cui l’extraterrestre cade a terra. Gli occhi sono in vetro, così come deciso dalla produzione dopo averne commissionato lo studio ad apposito istituto. Che E.T. dovesse avere le sembianze di una specie di Benjamin Button in età avanzata, dunque un bambino-vecchio, è idea di Spielberg; quanto al resto, Rambaldi s’ispirò al proprio gatto himalayano per il volto, rifancendosi a figure del dipinto Donne del Delta. Ma guardato bene negli occhi, E.T. ha ancha qualcosa del suo creatore.

“Io sarò sempre qui…”

E.T. uscì negli Stati Uniti nel giugno del 1982. Lo scorso maggio, presentando la versione Imax della pellicola al TCM Classic Film Festival, Steven Spielberg è tornato sul rapporto con il film e sull’influenza che esso ha avuto e continua ad avere sulla sua vita. Ha parlato della connessione speciale con il cast, e con Drew Barrymore in particolare. Più in generale, E.T. gli fece capire il significato di avere una famiglia: “Andavo di film in film, di script in script, non volevo avere figli perché la cosa non rientrava nell’equazione. Poi, durante le riprese, mi sono ritrovato a prendermi cura di Henry ( Henry Thomas, Elliott nel film, ndr), di Mike ( Robert McNaughton, che interpreta Michael, fratello di Elliott e Gertie, ndr), ma soprattutto di Drew ( Barrymore, ndr), che all’epoca aveva solo 6 anni. Ho pensato che quella sarebbe potuta essere la mia vita un giorno, che sarei potuto essere padre. E un regista, di un film, è già di suo un padre o una madre. Ho pensato seriamente che la famiglia sarebba stata la mia grande casa di produzione”. Benché nessuno si chiami Elliott o Gertie o Mike (al massimo Mikaela), da E.T. l’extra-terrestre in avanti Steven Spielberg ha fatto sette figli.

CINEMA & COSTUME

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2022-12-03T08:00:00.0000000Z

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