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‘Disregolazione emotiva’, l’emergenza ha un nome

di Davide Martinoni

In aumento i ricoveri nella fascia d’età 15-25 anni. Non sono casi psichiatrici, ma espressioni di disagio esistenziale. E la S. Croce di Orselina apre il reparto ‘ConTatto’.

Non casistiche psichiatriche determinate, ma testimonianze di un generico disagio esistenziale causato da una società confusa, che marchia ed espelle. Il sintomo più visibile è l’autolesionismo. La Clinica Santa Croce di Orselina ha creato il primo reparto ‘dedicato’ per la fascia dai 15 ai 25 anni, collegato con l’ampia rete socio-sanitaria ticinese.

Disregolazione emotiva. È una diagnosi sempre più frequente nella fascia che comprende adolescenti e giovani adulti. Parliamo di una vera e propria nuova epidemia, determinata certamente da situazioni familiari e di contesto particolari, ma prima ancora da quella stessa società che la provoca, ma poi non riesce ad accettarne le conseguenze, e tende a “marchiare”, semplicisticamente, come malattia.

Il trend è in netto aumento e si sovrappone con le altre molteplici casistiche normalmente trattate dalla Clinica Santa Croce di Orselina, unica struttura psichiatrica del Sopraceneri. Proprio alla Santa Croce avrebbe chiesto di essere ricoverato il fratello 20enne del giovane che aveva ucciso la madre ad Avegno di Fuori. Ventenne che pochi giorni fa è stato arrestato per aver dato fuoco all’abitazione in Vallemaggia dove era avvenuto il delitto; e ciò sarebbe successo prima che venisse il suo turno nella lista d’attesa per accedere al nosocomio privato.

Per casi di profondo disagio in parte o del tutto equiparabili a quello del giovane locarnese, prima in Ticino la Santa Croce ha due reparti: uno, il “protetto”, è chiuso; l’altro, il “ConTatto”, è aperto e nuovo: attivo dai primi di luglio, dispone (per ora) di 9 letti. La denominazione è frutto di un gioco di parole fin troppo comodo, ma molto centrato visti gli scopi che persegue. Ne abbiamo parlato con la primaria della Santa Croce, dottoressa Sara Fumagalli, e con il responsabile del reparto “ConTatto”, il medico psichiatra Daniele Garino.

Dottoressa Fumagalli, il reparto ‘ConTatto’ è di recente apertura ma parte da lontano.

Sì, in effetti l’idea di realizzare qualcosa di dedicato era nata già qualche anno fa, quando si cominciava a osservare quel trend giovanile in netto aumento. I ragazzi arrivavano in clinica come “schegge impazzite”, espulse dalla società, che li considerava malati. Non si parlava di casistiche psichiatriche scientificamente determinate, ma, più genericamente, di disagio esistenziale. Il che è se vogliamo ancor più allarmante, perché legato ad aspetti ambientali, familiari, sociali e scolastici. Era ed è insomma il contesto che diventa coadiuvante di quello che esprime il giovane. Egli diventa quindi per certi versi il sintomo più visibile della società in cui vive. Questo lo osservavamo appunto già 5 o 6 anni fa e ci chiedevamo come curare questa tipologia di malessere. Ci era già chiaro che dare un farmaco significa quasi cronicizzare e psichiatrizzare qualcuno che, semplicemente, pone delle domande e soprattutto cerca risposte.

Quindi?

Emergeva la necessità di costruire qualcosa di più confacente e adatto a quelle esigenze. Il come farlo è stato un lungo parto, perché in effetti trovare una risposta non è affatto banale. Per capire come altrove venivano gestite simili problematiche ci siamo confrontati con foyer e altre strutture in Italia e in Svizzera interna. Non abbiamo trovato risposte univoche. E dobbiamo inoltre considerare che i giovani ticinesi di oggi sono decisamente avanti rispetto ai loro coetanei del passato, e con questo intendo tredicenni che si ritrovano a che fare, nell’ambiente scolastico, con situazioni che noi letteralmente ci sognavamo.

‘Situazioni limite’ di non facile gestione.

Infatti l’argomento era stato tematizzato come criticità per noi, perché gli infermieri continuavano a venir messi a dura prova nella gestione di giovani che, ad esempio, si tagliano ogni giorno, così come ogni giorno presentano comportamenti che naturalmente sono da leggere come richieste di aiuto, ma alle quali non è affatto facile dare risposte immediate ed efficaci. Nella riflessione multidisciplinare, fatta di riunioni, visite e confronti, si è a un certo punto inserito il Covid, che ha canalizzato gran parte delle nostre energie per un anno buono. Nel frattempo, per una coincidenza fortuita, c’è comunque stata la possibilità di seguire una formazione specifica sui giovani con il San Raffaele di Milano, che dispone di ambulatori che vanno avanti da vent’anni sulla tematica. Abbiamo quindi messo assieme le diverse competenze e deciso, pur nell’ambito di una clinica acuta quale noi siamo, di effettuare un approccio ambientale, favorendo l’ascolto e lasciando quale ultima ratio il “cerotto”, ovvero il farmaco, con il quale si corre il rischio di fare dei danni.

Poi è arrivato il ‘ConTatto’.

L’idea è venuta da sé: creare appunto un reparto protetto non chiuso, con una capacità di 9 posti e un’organizzazione “scolastica” come planning settimanale condiviso, che favorisce un senso di appartenenza e di fratellanza fra i giovani. Qualcosa che permette di condividere un ritmo, ma anche delle fragilità. C’è dunque un’impronta fortemente familiare, ma con una presa a carico acuta e molto specialistica, utilizzando strategie psicoterapiche, psicoeducative, strutturali, di accompagnamento e di ascolto, oltre che, se necessario, di farmaco.

Quali riscontri avete, finora?

Osserviamo in primo luogo le grandi capacità autoterapiche dei ragazzi, che sanno aiutarsi reciprocamente. In aggiunta a questo c’è l’interazione con gli ospiti adulti, che diventano un po’ genitori o fratelli maggiori e con i quali si creano vicinanza e complicità. Quegli stessi adulti che prima venivano inquadrati come “il nemico che non capisce nulla”– a partire da quelli che portavano il camice – oggi sono considerati un potenziale aiuto. Prima ci confrontavamo con il fallimento di sentirsi impotenti, disarmati, non sufficientemente efficaci. Ci impegnavamo ma non era abbastanza. E ciò ci faceva star male. Oggi notiamo in primo luogo un gran sollievo nei ragazzi: ci dicono che sentono di appartenere a qualcosa, mentre prima si sentivano dispersi come del resto lo sono fuori dalla clinica.

Un primo bilancio, ad esempio rispetto alle eventuali recidive?

Di recidive ancora non si può parlare perché abbiamo aperto solo da pochi mesi. Posso comunque dire che da quando abbiamo creato il reparto si sono diradate di molto determinate dinamiche problematiche che si verificavano prima, nel reparto aperto, condiviso dai ragazzi con gli altri pazienti della clinica. Attuando ascolto e organizzazione riusciamo evidentemente a intercettare meglio delle tensioni prima che esplodano. Un aspetto da considerare nel “bene” o nel “male” – perché non è una questione solo positiva – è che si sta creando un passaparola piuttosto rilevante.

È chiaro che ragazze e ragazzi in difficoltà sono una triste, spesso drammatica espressione della società in cui viviamo.

Il ragazzo è un capro espiatorio e anche sintomo di un sistema. Quello che chiede è, nel 90% dei casi, di essere ascoltato. Non tanto per ottenere delle risposte, ma per trovare un sostegno mentale per cercarle, superando l’impulsività e i deficit di elaborazione di emozioni e sensazioni. Uno degli obiettivi è trasformare il problema apicale (ed epocale, per i giovani) della rabbia da distruzione o autodistruzione a portatrice di evoluzione; dipende dall’uso che ne fai.

Qual è il ruolo delle famiglie?

Vengono naturalmente coinvolte, ma nel rispetto del ragazzo. Se è minore, legalmente siamo tenuti a conferire con i genitori, mantenendo comunque una privacy rispetto ai contenuti più personali del giovane. Va detto che spesso ci accorgiamo che il genitore ha quasi più bisogno di aiuto del figlio. E questo è un altro tema su cui dobbiamo proiettarci. Il dottor Garino e la sua equipe danno un grosso sostegno alle famiglie, già solo per il tempo passato al telefono o a fare colloqui. Ma credo che a breve servirà qualcosa di più strutturato – non psichiatrico, ma piuttosto psicoterapico e psicoeducativo – anche per loro. Perché sono spaventati, non capiscono e non accettano: l’assunto, spesso, è “psichiatria uguale matto”, ma la reazione immediata è “mio figlio non è matto”. Non nego che alcuni sono figli di pazienti psichiatrici. In questo senso non c’è però da considerare un aspetto genetico, quanto educativo da parte di genitori fragili, immaturi e impreparati, come quella stessa società in cui viviamo e che crea molta confusione sui valori da trasmettere a un figlio. In questo senso possono tornare molto utili gli anziani, che però abbiamo ghettizzato poiché non più rispondenti a un mondo produttivo che si è dimenticato dei contenuti.

Oltre alla famiglia c’è poi tutto un contesto da ascoltare e nel quale se necessario intervenire.

È vero: parliamo di confusione dei giovani e dei loro genitori, ma questo sentimento accomuna tutto un ambiente: dalle scuole ai datori di lavoro, ai compagni di squadra e all’allenatore. È necessario che tutti ci si rimetta a far cerchio, più consapevolmente, in maniera tale che i ragazzi ritrovino dei riferimenti e sentano di poter essere capiti anche fuori dal contesto strettamente familiare.

Ma c’è anche un ‘dopo’ a cui pensare?

Assolutamente, ed è fondamentale pensarci fin da quando arrivano. Noi offriamo un ponte, nella cui “costruzione", se serve e se viene richiesto, c’è anche un periodo di trattamento ambulatoriale

intenso, quotidiano. Se consideriamo che alcuni ospiti vengono dal Sottoceneri, ciò presuppone una forte motivazione. Dopo la dimissione si può continuare il trattamento ambulatoriale qui, oppure attivare una rete, che esiste e le cui “maglie” noi stessi stiamo cominciando a scoprire. La realtà è complessa e molto ricca. Parallelamente, può iniziare un trattamento a domicilio di un sostegno adeguato tramite infermieri, ergoterapisti, centri di aiuto, ascolto telefonico e altri attori. Ripeto, gli elementi ci sono tutti, ma devono agire coordinati, lavorando con ragazzo, genitori, scuola eccetera. Per funzionare, questo meccanismo richiede passione e capacità di reagire alle frustrazioni, che a volte si manifestano, anche in noi operatori.

Parlava di rete di aiuto, protezione e prevenzione. Come è strutturata in Ticino?

Le strutture di sostegno non mancano (l’Ufficio dell’aiuto e della protezione – Uap –, l’Ufficio minori, l’Ufficio famiglie) ma tutto è ancora molto frammentato perché ancora non abbiamo una casistica sufficientemente rilevante da determinare un’attivazione combinata di tutti, “obbligandoci” a dialogare di più fra noi. Per fortuna le cose stanno cambiando. Negli ultimi tempi ci siamo imposti di fare una riunione al mese con l’Uap, con tutti gli Spm (Servizi per i minori esistenti), i Servizi psichiatrici per adulti (Sps), che subentrano nella presa a carico dei minorenni quasi congiuntamente agli Spm nel momento del passaggio alla maggiore età; poi telefoniamo ciclicamente a tutti i curanti, ai medici di famiglia eccetera. È vero che esiste il rischio che la casistica aumenti, ed è quindi fondamentale agire di prevenzione.

L’unica parola d’ordine può quindi essere ‘unione’.

Sembra una banalità, ma il grosso punto di forza per affrontare le conseguenze di questo cambiamento sociale epocale è proprio l’unione. Se si crea una squadra e si lavora assieme è completamente diverso rispetto a rimanere da soli a trattare determinate casistiche. Se ogni giorno mi arriva il ragazzo esprimendo idee suicidali – perché di questo stiamo parlando – da sola non ce la potrei fare: sarei sovraesposta emotivamente e dopo un po’ non dormirei più la notte. Lavorando in equipe, vedendo le cose da più punti di vista e imparando a differenziare compiti e ruoli, si può fare. E più la squadra è allargata, meglio è. Aggiungerei anche che sono fiduciosa: di recente abbiamo avuto un incontro con il coordinatore della Cellula socio-educativa d’urgenza per minorenni e progetto Centro educativo minorile itinerante (Cemi), quindi un esponente del pubblico. Si è posto veramente in modo collaborativo; ho notato una grande disponibilità, un grande credo, una grande voglia di rinnovamento.

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