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‘Volevo bruciare la casa, non la mia famiglia’

Per la giovane che appiccò il fuoco a Sala, riconosciuta autrice di tentato omicidio e incendio intenzionale, un trattamento terapeutico in struttura chiusa

di Leonardo Terzi

Un gesto inconsulto: è passato oltre un anno, ma anche dopo le perizie psichiatriche e il procedimento penale, resta difficile da spiegare cosa sia passato nella testa della ventenne che incendiò casa sua a Sala Capriasca. Era il 4 agosto dell’anno scorso.

Tra le fiamme rimase gravemente ustionato suo padre, mentre la mamma e i tre fratelli riuscirono a mettersi in salvo. Ora l’epilogo giudiziario: la Corte delle Assise criminali (presieduta dal giudice Amos Pagnamenta, a latere Aurelio Facchi e Luca Zorzi) ha riconosciuto i reati di tentato omicidio intenzionale e di incendio intenzionale, ma c’è la totale non imputabilità: la ragazza non era in grado di intendere e di volere.

Viene quindi confermata la misura proposta dal procuratore pubblico Simone Barca, ovvero un trattamento terapeutico in una struttura chiusa. Sarà un carcere del Canton Friborgo, a partire da gennaio, e finalmente la giovane potrà lasciare la Farera. Da qui in avanti il caso sarà gestito dal giudice dei provvedimenti coercitivi. Evidentemente il suo rientro nella società sarà ammesso solo una volta riscontrati importanti progressi dal profilo della tenuta mentale.

Una forza maligna

L’avvocato difensore della giovane, Maricia Dazzi, ha detto che la sua assistita è stata spinta «da una forza maligna». A verbale, la stessa ventenne affermò che in piena notte, verso le tre e mezza, «sentivo la testa pulsare pesantemente dai pensieri, ossia dai pensieri di bruciare la casa e scappare in macchina con le poche cose che mi servivano per sopravvivere due giorni. Io volevo bruciare la casa, non la mia famiglia. Non so spiegarmi assolutamente perché ho avuto questo impulso improvviso, non ero né arrabbiata né felice, era quasi come se fossi in un sogno».

Durante il dibattimento in aula ha ribadito questo confuso ricordo. «I rapporti con i miei erano buoni, alti e bassi, ma più alti che bassi». Lo stesso si può dire della relazione con i suoi tre fratelli. All’apparenza una vita familiare normale.

Il giorno del suo folle gesto, molte ore prima, alla Foce del Cassarate aveva fatto qualche ‘tiro’ di erba e bevuto una birra. Sicuramente una spiegazione non va cercata lì, ma nel quadro psichico di una ragazza che fin dalla tenera età ha dovuto ricorrere alle cure di specialisti.

Il padre in fiamme

Fatto sta che quella notte, si erano fatte le 4.30, prese una tanica di benzina dal garage, la cosparse su un divano e lungo le scale, poi diede fuoco. Il proposito di fuggire in macchina fallì, perché la ragazza non riuscì a staccare il cavo di ricarica, trattandosi di una vettura elettrica. Il padre a verbale disse di averla vista sulle scale, lei in aula ha detto di non aver scorto il genitore, che tentò di spegnere l’incendio, facendo scappare il resto della famiglia. Ma il suo tentativo finì per aumentare l’intensità delle fiamme. Divenuto una specie di torcia umana, tentò infine di auto-spegnersi con la canna dell’acqua. Ricoverato d’urgenza in una struttura specializzata oltre Gottardo, rimase ustionato al 70 del corpo. È uscito dall’ospedale solo tre settimane fa, dopo oltre un anno di cure, e sta cercando di riprendere una vita normale. Nel processo si è costituito accusatore privato, ha spiegato la sua legale Sandra Xavier, anche per una questione di tutela assicurativa, e per sostenere la necessità di una terapia. Non ha avanzato pretese nei confronti della figlia. Che nelle fasi concitate dell’incendio, definì la ragazza “un satellite”.

Sensi di colpa

«Stare in carcere non è una bella situazione, ma sono serena» dice oggi la giovane. «Onestamente mi sento un po’ in colpa per quello che ho fatto, ma sto cercando di aggiustare le cose, anche con i miei familiari. Li vedo una volta alla settimana, mio padre non ancora, ora vedrò anche lui».

«Quel giorno non so spiegarlo, però ero molto agitata. I miei familiari? Ero così impanicata che non ci ho nemmeno pensato. Vedo le cose un po’ differenti dagli altri. Sono più sensibile, mi capita di perdere il controllo delle mie emozioni e la cosa diventa molto più amplificata. Gli psichiatri del carcere? A parer mio non sono così bravi, sono più io a lavorare su me stessa. Sono molto dispiaciuta per quello che è successo» ha concluso in lacrime.

Mancano strutture

La difesa aveva chiesto lo stralcio dell’accusa di tentato omicidio, ma la Corte non ha accolto la richiesta, sia pure in un quadro di totale scemata responsabilità. La giovane, ha detto il giudice Pagnamenta, non poteva non sapere che nella casa mandata a fuoco c’erano i suoi familiari. Le parti non hanno annunciato ricorsi.

La vicenda psico-criminale ha pure evidenziato una mancanza di strutture idonee per casi del genere. Oltre un anno di detenzione alla Farera non è una soluzione adeguata, specie per una persona con problemi mentali mentre, anche cercando nel resto della Svizzera, alcune strutture adatte a queste cure stazionarie sono risultate al completo.

LUGANO E DINTORNI

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2024-09-26T07:00:00.0000000Z

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