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Andare ‘Oltre’ la storia

Stasera e domani al Lac, Fabiana Iacozzilli porta in scena la tragica vicenda del volo 571 dell’aeronautica militare uruguaiana precipitato sulle Ande nel 1972

Di Valentina Grignoli

Torna al Lac di Lugano questa sera e domani la regista e autrice romana Fabiana Iacozzilli, vista la scorsa stagione con ‘Il grande vuoto’ e con la sua mise en lecture di ‘Agustina, sulla soglia’, di Anahi Traversi. La regista proviene – anche – dal mondo del teatro di figura. A Venezia nel 2020 mi era capitato di vedere in Biennale ‘Una cosa enorme’ (simbolicamente rappresentato in un ventre immenso) e ne ero rimasta colpita. Lo spettacolo è insieme al ‘Grande vuoto’ e ‘La classe’, parte della ‘Trilogia del vento’, un trittico in cui Iaccozzilli si interroga su tre tappe dell’esistenza umana. Ma veniamo a ‘Oltre’, lo spettacolo che vedremo stasera e domani. Si ispira a una storia vera, la tragedia del volo 571 dell’aeronautica militare uruguaiana che il 13 ottobre del 1972 si schiantò sulle Ande con quarantacinque persone a bordo. La vicenda è abbastanza nota anche grazie alla cinematografia (‘Alive – Sopravvissuti’, del 1993 e, esattamente trent’anni dopo, ‘La società della neve’). Si tratta della squadra di rugby Old Christians Club, che insieme ad amici e familiari da Montevideo viaggiava a Santiago del Cile. Dei ventinove che sopravvissero allo schianto, solo sedici resistettero ad altitudine, freddo e fame per più di due mesi. Si scoprirà poi che i sopravvissuti si erano nutriti dei corpi degli amici deceduti. Ho raggiunto Fabiana Iacozzilli, che firma questo spettacolo con la dramaturg Linda Dalisi, per farmi raccontare da lei, innanzitutto...

... come mai ha deciso di raccontare questa incredibile storia?

Lo spettacolo è nato, come spesso accade, perché sono stata attraversata da un’intuizione. Avevo già visto ‘La società della neve’ e mentre ero in tournée con ‘La classe’, anche in questo caso teatro di figura, una notte incappo in un documentario in cui c’erano i sopravvissuti, insieme alle loro testimonianze. Il loro modo di affrontare e divulgare la potenza della tragedia mi ha segnato. Nei film ci colpisce la crudezza della storia, ma in questi racconti una grande componente era l’amore, la resilienza, il fatto di essere un gruppo, e decidere di resistere come comunità. Ero alla ricerca di una storia che parlasse della capacità di sopravvivere al disastro, di reinventarsi dopo la tragedia. Questa quindi era quella giusta, dalla quale ripartire dopo la Trilogia del vento. E sarebbe stato interessante farlo attraverso il teatro di figura.

Come avete costruito questo spettacolo, insieme a Linda Dalisi?

L’ho coinvolta e l’abbiamo scritto insieme. Abbiamo attivato una collaborazione con l’Istituto italiano di cultura a Montevideo e anche grazie al sostegno dello Stabile dell’Umbria e di ‘cranpi’, siamo potute andarci per due settimane tra febbraio e marzo 2025. Abbiamo incontrato quattro sopravvissuti e alcuni familiari delle vittime, e siamo partite da lì. Sono stati ovviamente incontri lunghi e complessi, molto potenti. Inizialmente c’erano alcuni punti nella vicenda che sapevamo di voler dire e poi, quando abbiamo messo le mani nella carne viva, molte delle strade da percorrere per raccontare questa storia sono diventate più chiare. Con Paola Villani, la scenografa, ci siamo interrogate a lungo su quale potessero essere le visioni. Ci ha proposto di ispirarsi alle sculture di Alberto Giacometti per creare i puppets, corpi che nella loro longilineità potessero raccontare la sofferenza di questa condizione. Questi corpi sono anche la sintesi materica del paesaggio naturale, che in teatro non potevamo mostrare naturalmente. I corpi diventano così i simboli del ghiaccio, della neve, dell’ostilità del paesaggio che li circonda. Questo lavoro è una graphic novel in movimento. Attraverso il teatro di figura vengono presentate delle tavole in movimento che entrano in risonanza e creano un cortocircuito. C’è la poeticità delle immagini e il racconto vivo dei sopravvissuti. Il piano sonoro è il montaggio delle interviste.

Qual è il tuo rapporto con il teatro di figura? Permette di raccontare la tragedia in un altro modo?

Utilizzo teatro di figura qui per la terza volta, trovo che ci toglie dal problema del pathos e della retorica. Quando si va a lavorare sul documentario, con una storia che affonda le mani nella realtà, bisogna cercare di costruire un racconto visionario e poetico. Oggi nel teatro si parte spesso da storie vere, ma secondo me bisogna avere l’ambizione di creare un filtro, di lavorare teatralmente sulla materia. La figura per sua natura oggettivizza, porta su un altro piano la narrazione, è una strada molto potente e pertinente, ci apre la possibilità di andare in una visione altra, più lucida.

Si va ‘Oltre’, come nel titolo del tuo lavoro…

Sì, esattamente, poi c’è anche da dire che questa è una vicenda che ha a che fare con il concetto di sopravvivenza, ma anche con il concetto di sacro. Il teatro di figura apre le porte al metafisico. Raccontare questi corpi martoriati e scarnificati ma sacri al tempo stesso, ha molto a che fare con il concetto di Dio.

Ci sono più livelli di narrazione nel vostro spettacolo, quindi...

Sì, uno di questi è il concetto, per esempio, di squadra. Linda Dalisi è stata eccezionale, ha colto da subito un aspetto chiaro e potente della vicenda che però non viene mai raccontato abbastanza: i sopravvissuti sono tutti ragazzi membri di una squadra di rugby! Questo aspetto è fondamentale, e lo mettiamo in evidenza. Non è che per sopravvivere si debba giocare a rugby, ma nel momento in cui l’io è diventato noi, si sono fatti più potenti e sono riusciti a sopravvivere inventandosi una strada per la salvezza. Ci tengo molto a questo aspetto oggi fondamentale: è importante sentirsi parte di una comunità per andare oltre.

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