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Tra una guerra e l’altra, le vite normali di Gaza

Di Martina Parenti

Dobbiamo tornare a parlare di Gaza. Proprio ora, mentre i riflettori si abbassano, la furia impotente della cittadinanza si placa e le piazze si svuotano, con le bandiere lasciate a scolorire sui balconi. Quando la cronaca con la sua lista quotidiana dei morti diventa una lettura ripetitiva, proviamo con la letteratura. Giovedì 4 dicembre esce per Polidoro ‘Vita appesa’, romanzo firmato da Atef Abu Saif nella traduzione dall’arabo di Lorenzo Declich e Daniele Mascitelli.

Saif, già professore di Scienze politiche all’Università di Gaza, è scrittore e giornalista, collaboratore di testate come The New York Times e The Washington Post. Dal 2019 al 2024 è stato ministro della Cultura della Palestina. Oppositore di Hamas, ha subìto oltre quaranta arresti. Autore di una vasta opera narrativa dedicata alla Striscia, ha fatto della scrittura un atto di responsabilità: nel 2024, sotto i bombardamenti, i suoi racconti escono da Gaza, trovano spazio sui quotidiani internazionali, diventano testimonianza diretta del genocidio e confluiscono poi nel volume ‘Diario da Gaza’ (Fuoriscena, 2024). ‘Vita appesa’, scritto nel 2014, torna invece a scandagliare la vita nella Striscia attraverso tre generazioni. Una saga familiare in cui il tempo è segnato da occupazioni, guerre, intifade ed embarghi. A parlarcene è il curatore, Giacomo Longhi Alberti, traduttore dall’arabo e dal persiano e direttore della collana ‘Disorientanti’.

Lei si muove tra Iran e Paesi arabi alla ricerca di nuovi autori da tradurre. Qual è stato il primo incontro con Atef Abu Saif?

Qualche anno fa stavo cercando materiale su Gaza. Oggi le pubblicazioni sono numerose, ma fino al 2023 non era facile trovare molto sull’argomento. Mi imbattei allora in un’antologia in inglese, ‘The Book of Gaza’, che raccoglieva testi di vari scrittori palestinesi. Fu lì che scoprii che il curatore, Atef Abu Saif, era a sua volta un autore affermato, con diverse opere all’attivo, tra cui un romanzo arrivato finalista all’International Prize for Arabic Fiction di Abu Dhabi nel 2015. Si trattava proprio di ‘Vita appesa’.

Dove risiede la forza di questo autore?

Oggi più che mai, case editrici e lettori tendono ad associare la letteratura mediorientale quasi esclusivamente a racconti di guerra. Atef invece ci restituisce uno squarcio su Gaza, racconta cosa avviene tra un conflitto e l’altro: la quotidianità di persone che si sposano, hanno figli, viaggiano. Una scena del romanzo si svolge in un caffè letterario, dove due giovani parlano di Tess dei d’Urberville. Questa è sicuramente la parte più preziosa del suo lavoro: raccontare un popolo che in tempi di pace può essere simile al nostro e in dialogo con il mondo.

Cosa significa trasformare la violenza del reale in racconto?

Una parola molto usata dai palestinesi è sumud, che tradurrei con tenacia. Il termine racchiude questa volontà di non soccombere mai alla violenza. ‘Vita appesa’ si apre con una scena di sangue: Na’im, ormai sessantenne e proprietario di una tipografia dove vengono stampati i manifesti con i nomi dei martiri uccisi dall’esercito israeliano, viene colpito da un cecchino. Il romanzo però scavalca la violenza per raccontare tutto quello che accade dopo e che è stato prima. Oltre ai massacri c’è un mondo che tenta di condurre una vita normale.

I traduttori inglesi e tedeschi hanno tradotto il titolo del libro come ‘Una vita sospesa’. Voi invece avete deciso di usare il termine appesa. Perché?

In arabo la parola può avere entrambe le sfumature. Abbiamo scelto appesa come riferimento a un elemento della trama: i manifesti che Na’im stampa vengono fisicamente appesi un po’ ovunque: nei negozi, nelle case, per strada. Quelle vite perdute si trasformano in pezzi di carta. Non so se Saif ci abbia pensato, ma nella scelta del titolo ho colto anche un riferimento a ‘Le appese’, un testo preislamico composto da una serie di componimenti poetici di ambito amoroso/cavalleresco che, pare, venissero affissi come stendardi.

Sul sito di Polidoro si legge che ‘Disorientanti’, la collana di cui è direttore e di cui fa parte questo libro, nasce per spezzare i cliché su ciò che consideriamo Oriente. Qualche esempio?

Il pregiudizio più diffuso è che nel mondo arabo e persiano si viva male soprattutto a causa della guerra. Per la mia esperienza, non è affatto così. Ho studiato in Siria e ho potuto vedere da vicino la normalità del quotidiano e il genuino gusto di vivere delle persone. La scelta dei libri che pubblico mira proprio ad ampliare lo sguardo dei lettori, permettendo loro di conoscere anche altre dimensioni di questi Paesi. La guerra e la miseria non sono affatto gli aspetti dominanti. Di recente sono stato alla Fiera del Libro di Sharjah, negli Emirati Arabi, un Paese che investe molto nella cultura, dove ho incontrato moltissimi autori e autrici. Colpisce, inoltre, la forte presenza femminile, ben lontana dallo stereotipo comune.

Cosa pensa del recente accordo su Gaza?

Mi rifaccio alle parole di Atef, che ho avuto modo di ascoltare di recente anche su questo tema. I palestinesi hanno percepito l’accordo come una forma di ricatto, pur sapendo che era impossibile rifiutarlo. Trovo personalmente vergognoso il silenzio dell’Unione Europea e dei Paesi occidentali: non c’è stata alcuna condanna per il mancato rispetto del cessate il fuoco, mentre Israele ha continuato a bombardare Gaza in modo sistematico. La Germania, riprendendo la vendita di armi a Israele, ha mostrato la volontà di ignorare una palese violazione dei diritti umani. In Europa, il trauma storico della Shoah non può diventare un alibi per ignorare le responsabilità attuali e le gravi conseguenze che le operazioni militari israeliane hanno sulla popolazione palestinese, incluse le palesi violazioni del diritto internazionale umanitario.

Alla presenza dell’autore, il libro viene presentato giovedì alle 20 a Grono, nell’Aula Magna dell’edificio scolastico, all’interno della Biennale Calanca.

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