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Nel mondo di Davide Calì

Classe 1972, nato a Liestal (Bs), sabato scorso ha ritirato il premio italiano più importante legato alla letteratura per l’infanzia. Lo abbiamo incontrato

Di Maddalena Müller

La rivista mensile Andersen, il maggior punto di riferimento in Italia di letteratura per l’infanzia, anche quest’anno ha premiato i migliori libri e autori in ambito internazionale con il Premio Andersen, il più prestigioso riconoscimento nell’ambito.

Davide Calì, fumettista, autore e illustratore italiano nato in Svizzera, ha scritto e illustrato oltre duecento libri, pubblicati in tutto il mondo. In occasione della 44esima edizione del Premio Andersen, ha ottenuto il premio di Miglior scrittore. La premiazione si è tenuta sabato 24 maggio nella Sala del Minor Consiglio a Palazzo Ducale, a Genova. Abbiamo scambiato due chiacchiere con lui la mattina della premiazione.

Davide Calì, sei scrittore, illustratore, fumettista, ideatore di giochi da tavolo: cosa significa, per te, essere creativi?

Io non saprei immaginarmi a fare qualche cosa di diverso, per cui per me essere creativo è sempre stata una cosa naturale. Fin da bambino, ho avuto in mente di fare questo per mestiere. Pensavo di fare il fumettista, però quando ero ragazzino, alle medie, pensavo anche di fare pubblicità, perché mi piaceva molto anche quel linguaggio. Diciamo che per me è un po’ un modo di essere, non sarei in grado di fare altro.

Quali credi siano gli elementi che rendono universale un libro per bambini?

In realtà quello che dico ai miei studenti, alle persone che seguono i miei corsi, è che per essere universali occorre allontanarsi innanzitutto da sé stessi, dalle proprie origini. Non vuol dire rinnegarle, tutti noi abbiamo una o più origini culturali, però dobbiamo semplificare il messaggio, non rimanere troppo attaccati al luogo in cui siamo nati. Anche nel momento in cui si tratta un tema, bisogna per assurdo allontanarsi da quello, renderlo un po’ più favola. Credo, per mia esperienza, che facendo così riesci a parlare a più persone possibile. Soprattutto, alle volte siamo tentati di trattare di attualità, senza renderci conto che l’attualità, per quanto poi si ripresenti (tristemente) sempre, tende a ripresentarsi in una modalità diversa, con protagonisti diversi, come nelle guerre.

Il punto quindi non è raccontare quell’evento specifico, ma raccontare una situazione più generale. Più la generalizzi, e più effettivamente riesci a renderla universale. Nel momento in cui parli di guerra, senza parlare di una guerra nello specifico, alla fine parli del conflitto umano, che non esiste soltanto nelle guerre, ma esiste anche da bambini, e in tante situazioni. Se racconti un fatto nello specifico, ovviamente restringi il campo dei tuoi lettori.

Nei tuoi libri tratti i temi più disparati: amicizia, unicità, guerra e migrazione, penso al bellissimo ‘La Casa degli uccelli’ (sul dramma dei lavoratori stagionali in Svizzera che dovevano tenere nascosti i figli, non potendo portarli con sé, ndr): ci sono dei temi che non si possono trattare nei libri per bambini?

Io ho cominciato a fare libri per bambini nel momento in cui mi sono reso conto che c’era una grande libertà, leggendo libri francesi: all’epoca erano quelli che avevano la più grande ricchezza e libertà espressiva, da tutti i punti di vista (da quello grafico, delle tematiche). Io fino ad allora mi ero approcciato ai libri per bambini con un po’ di pregiudizio, nel senso che pensavo fossero qualcosa di diverso rispetto a quello che volevo fare io – facevo fumetti – ma poi mi sono reso conto che alla fine ai bambini si può raccontare tutto: poi ovviamente c’è una scelta, su come raccontare le cose. In genere, non ho la sensazione di scegliere molto quando scrivo: tutti dicono che io ho scritto delle storie sulla guerra, o su altri temi, ed è abbastanza vero, ma nel momento in cui le scrivevo non mi sono reso conto, non era la mia volontà. Non mi sono mai messo a tavolino dicendo: adesso scrivo una storia sulla guerra, sul conflitto, sull’amore o l’amicizia, è qualcosa di più. Sono dei pensieri che maturano in me: tu citavi il caso dei bambini nascosti nell’armadio, per esempio – io sono nato in Svizzera tedesca, figlio di immigrati italiani – e quando ho scoperto questa storia, che ci sono stati bambini della mia generazione che hanno vissuto quella situazione, questa cosa mi aveva molto colpito, però poi è rimasta lì, è maturata un po’, e a un certo punto è venuta fuori una storia. È una finta storia di fantasmi, perché poi si finisce a trattare di quel tema, ma si parte un po’ più da lontano.

Hai scritto oltre duecento libri: ce n’è uno in particolare a cui sei legato?

In realtà no, diciamo che una volta fatti, i libri li metto da parte. Poi ce n’è qualcuno che ha più riscontro, qualcuno meno. Senz’altro, nella mia carriera, il libro ‘Moi, j’attends’ (Io aspetto) è quello che ha segnato un cambiamento. Ha preso un premio importante a Parigi, il Prix Baobab alla Fiera del libro di Montreuil, e lì mi sono reso conto che stava succedendo qualcosa. Dopo il premio, improvvisamente, tutte le persone con cui parlavo, sapevano come mi chiamavo. Serge Bloch era già famosissimo (l’illustratore del libro, ndr), è un grande dell’illustrazione francese, già lo conoscevano tutti, mentre la casa editrice (Sarbacane, ndr) si era formata da poco. Nata nel 2003, quando nel 2005 è uscito il libro, diciamo che ci siamo fatti notare. Quello è stato un po’ un biglietto da visita, perché tutti cominciassero a vedere un po’ quello che facevo, e quest’anno festeggiamo a Parigi i vent’anni dall’uscita del libro, con una mostra.

Per finire: c’è un personaggio (o più) della letteratura per l’infanzia con il quale ti identifichi?

Non ci ho mai pensato, ma da bambino sono stato senz’altro un grande fan di Sandokan, o Huckleberry Finn. Mi piacevano molto i personaggi di avventura.

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2025-05-26T07:00:00.0000000Z

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