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Spente le luci resta il cinema

Il Festival di Cannes non è solo premi e giuria e non finisce quando cala il sipario, grazie alle centinaia di film che escono dalle sue sale e invadono il mercato mondiale

di Ugo Brusaporco, inviato a Cannes

E adesso? Adesso che le luci si sono spente sulla Croisette e la vita quotidiana di Cannes continua, con chi affolla le spiagge mentre la gente di cinema e i festivalieri sono ritornati ai loro Paesi (perché il Festival di Cannes è come un’Olimpiade che vede persone in arrivo da ogni dove); adesso cosa succede?

Dopo qualsiasi festival di cinema – Berlino, Venezia, San Sebastiano, Tokyo; anche Locarno – una volta chiuso il sipario, tutto è finito. Cannes, però, non è così. Centinaia di film sono uscite da queste sale per invadere il mercato mondiale. Non solamente Indiana Jones o l’ultimo disegno animato della Pixar; non Wim Wenders o qualsiasi altro film. Sono i film di Cannes: un marchio di fabbrica indelebile e una garanzia. È questo che rende quello di Cannes il festival principe tra tutte le manifestazioni cinematografiche.

La sfilata

Ed è divertente pensare che la Mostra del Cinema di Venezia si trovi a cercare i suoi film tra quelli scartati da Cannes. A cominciare da quelli prodotti da Netflix, invisi sulla Croisette dove è stata sposata la causa dei film in sala cinematografica. Il fatto che il mercato mondiale delle sale cinematografiche sia cresciuto quest’anno del 25 per cento, a eccezione di alcuni Paesi tra cui l’Italia, non è segnale da poco.

Cannes, dunque, non è solo il Palmarès, non è solo una Giuria; ma è la magia di uno spettacolare amore per il Cinema. Per capire questa magia bastava guardare la cerimonia che ha preceduto la premiazione. Un rituale durante il quale attori e attrici, registi e produttori, politici e gente comune sono sfilati come soldatini ordinati per oltre un’ora davanti al Palais, come fossero serie indossatrici. E nessuno a lamentarsi, come mai si vede, in un gioco coreografico che, da solo, è Cinema.

Quel Cinema che a Cannes canta in ogni sezione e che non è unicamente blockbuster. Perché prima di tutto è la serietà di un lavoro, di quel fare cinema mai serializzato e mai frutto di una umiliante catena di montaggio determinata da processi politici e industriali.

La possibilità

Ecco allora la possibilità per lo spettatore di scoprire mondi cinematografici illimitati. C’è il film di successo indiano, come ‘Kennedy’ di Anurag Kashyap (pioniere dell’industria cinematografica indipendente e ancora oggi tra i cineasti più influenti di Bollywood), che racconta la storia di un detective assassino senza romanticismo ma legato a originali tradizioni narrative. C’è ‘Bread and Roses’ di Sahra Mani, dal vivo capace di dire in modo significativo e deciso il destino delle donne che vogliono affermare i loro diritti in Afghanistan e vengono percosse e uccise, non solo a Kabul. Donne che fuggono ad affrontare la povertà di Islamabad per non essere assassinate.

Ci sono film difficili da confrontare se non nel nome della qualità, come il necessario ‘L’Abbé Pierre – Une vie de combats’ di Benjamin Lavernhe, che va a rivedere e a ridare senso all’opera straordinaria di Henri Grouès, prete dalla salute cagionevole, combattente della Resistenza e deputato della Liberazione. Un’opera diventata leggenda, quella dell’abate Pierre (il nome che si scelse), uomo di pace impegnato anima e corpo contro le misere abitazioni in nome di una giustizia sociale imprescindibile dalla parola uomo. C’è‘Hypnotic’, thriller alla Hitchcock secondo Robert Rodriguez: attualmente ai primi posti delle classifiche negli Stati Uniti, resta un film da incasso senza le implicazioni politiche e sociali che ha invece la pellicola sull’Abbé Pierre.

La periferia (del mondo)

È stato anche, quello di quest’anno, un festival che ha raccontato le periferie del mondo, realtà dimenticate dalle cronache globalizzate. Ci siamo trovati in quelle di Casablanca con il premiato in Certain Regard ‘Les Meutes’ di Kamal Lazraq, film che fa la chiosa al neorealismo per dire di un’umanità al limite, dove il sopravvivere vuol dire non essere sbranato dai cani; e in quelle di Marsiglia in ‘Salem’ di Jean-Bernard Marlen, lavoro che nega lo Shakespeare di ‘Romeo e Giulietta’ e irride il ‘West Side Story’ di Jerome Robbins e Robert Wise raccontando di Djibril, giovane comoriano di Sauterelles (difficile quartiere di Marsiglia) innamorato di Camilla, zingara del quartiere rivale dei Grillons. Nessun telegiornale può narrare meglio del nostro tragico tempo, chiuso al confronto e immerso nel disfacimento del quotidiano essere in guerra.

La vera eroina

E finalmente è stato il Festival delle donne. Al di là della Palma d’Oro a Justine Triet per ‘Anatomie d’une chute’; al di là di ‘How To Have Sex’ di Molly Manning Walker, che ha vinto Un Certain Regard mostrando la drammatica pressione esercitata dai media tutti sui giovani, per avere rapporti sessuali. Al di là anche di altri importanti film, c’è una figura di donna che resterà memorabile marchio di questo Cannes numero 76. È quella – commuovente per la sua forza, per la sua indipendenza e per l’amore smisurato di cui è capace – ritratta da Aki Kaurismaki nel suo immenso ‘Kuolleet Lehdet’ (Les Feuilles Mortes). In questo film la grande attrice Alma Pöysti interpreta una donna di mezza età che è sola per un motivo non specificato, colta nel momento in cui viene licenziata dal supermercato in cui lavora per aver rubato nelle immondizie una confezione di cibo scaduto. Pronta a tutto, la donna accetta un impiego come lavabicchieri in un bar, per il quale dovrebbe essere pagata in nero; ma il proprietario viene arrestato per traffico di droga. Senza perdersi d’animo, trova lavoro in una fonderia e, nel frattempo, ha il coraggio e la determinazione di costruirsi una storia d’amore con un alcolizzato perdente. È questa donna, vera oltre ogni finzione, la reale eroina di un festival grande e unico. Altro che Indiana Jones.

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2023-05-30T07:00:00.0000000Z

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